
Analisi del testo
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Forum degli studenti del corso di Letteratura Italiana Contemporanea A, Università di Torino
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Serena Apprendista

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 Sesso:  Età: 38 Registrato: 23/09/08 22:18 Messaggi: 75
Località: Torino
Impiego: studentessa
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Ecco la tesina che gentilmente mette a disposizione Gianpiero Macagno,
che frequenta il corso solo il martedì ma darà l'esame già a novembre...
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI STUDI DI COMUNICAZIONE INTERCULTURALE
LETTERATURA ITALIANA CONTEMPORANEA
ANALISI DEL TESTO
LA PSICHIATRIA… CHE SI LASCIA LEGGERE
ANNO ACCADEMICO 2008/09
GIANPIERO MACAGNO
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Sessione novembre 2008
Il legame tra la psichiatria e la letteratura si può rintracciare attraverso gli studi che, nel corso del tempo hanno approfondito tematiche specifiche: si possono così riscontrare legami tra i due campi, punti di contatto e similarità, possibilità di riconoscimento reciproco, spunti di riflessione e spazi per lavorare, utilizzando proprio le possibilità di far coabitare la malattia mentale con l’espressione narrativa e poetica. Argenton e Messina danno un quadro completo delle tipologie di studi che sono stati effettuati (cfr Argenton e Messina, 2000, pagg. 45-49). In questo lavoro vorrei proporre alla riflessione l’esperienza di uno psichiatra, il dott. Eugenio Bornia , che attraverso il discorso narrativo e a partire dall’analisi di alcuni testi, cerca di esprimere le linee tematiche di una psichiatria aperta ad ascoltare le voci palpitanti della vita interiore: una vita segnata dalla malattia psichiatrica, dal precipitare delle speranze e della speranza, dall’affacciarsi della morte provocata alla soglia della vita. Vorrei concludere con l’utilizzo terapeutico dei racconti didattici, nel modello di intervento proposto da M. Erickson.
L’angoscia della more si rispecchia nella depressione sulla scia di una enigmatica circolarità di esperienze nella percezione di un essere-morti, di un sentirsi-morti, interiormente: come in un deserto emozionale che si riempie solo di cose estranee e indifferenti (Borgna, 2005, pag. 109).
L’autore analizza la poesia di Leopardi, definendola come possibilità per scoprire e capire meglio che cosa si muove nell’anima di chiunque mediti il suicidio: in Leopardi la morte non è desiderata, ma presente in ogni momento della sua vita. Il suicidio, allora, diventa espressione del naufragio definitivo di un’esistenza che in realtà non ha neppure potuto realizzarsi: nessun sogno, nessuna attesa custodita nel cuore dell’adolescente ha trovato una strada per attuarsi.
Successivamente, prima di affrontare il tema del suicidio nelle opere di Pavese, si sofferma su una tematica più specifica, facendo riferimento alla storia di vita di alcune pazienti dell’ospedale Maggiore di Novara. Definisce il suicidio come l’esperienza umana e clinica più radicale e drammatica: si rischia di morire di morte violenta quando si spegne la speranza, si entra nel non senso della vita, muore quella speranza, quella espérance che non riesce più a lottare contro i conflitti e le delusioni, le frustrazioni e le discordanze dell’esistenza. La storia di alcune pazienti si cristallizza in brevi testi narrativi e poetici che esprimo tutta la drammaticità di vite sospese tra il tentativo di ricercare ancora una speranza e il fascino di una morte che viene a sigillare una vita sperimentata già come unicamente arida e senza orizzonti. Emerge un fascino per la morte che accarezza i pensieri adolescenziali: è frutto della solitudine interiore e dell’isolamento sociale e si pietrifica in una forma quasi autistica. I testi, a volte lunghe narrazioni, altre volte brevi stralci di pensieri incisi per la sciare traccia della sofferenza e della vita interiore, raccontano di emozioni che subiscono rapide oscillazioni, che sembrano spegnersi, ma restano capaci di ridestarsi quando incontrano ambienti caldi e partecipi. La narrazione delle pazienti apre uno squarcio che interroga sulla sofferenza, ma anche sulla vicinanza e sul sottile confine tra malattia e salute:
una sofferenza, che non ha nulla in comune con le nostre comuni sofferenze, e che nondimeno ci è possibile rivivere (se ci sono in noi intatte attitudini alla immedesimazione) come una esperienza non impossibile e comunque radicata nella condizione umana: nei suoi smarrimenti e nei suoi deragliamenti: nei suoi abissi e nelle sue vertigini” (Borgna, 2005, pag. 154).
Pavese non sperimenta una situazione di patologia psicotica, ma nei suoi diari, nelle sue lettere, nelle sue poesie, emerge l’idea di suicidio che ha le sue radici nell’adolescenza. L’autore definisce questa realtà come suididalità cronica, come “nostalgia di una morte volontaria che, dalla adolescenza, si trascini nel tempo fino a giungerne all’attuazione” (Borgna, 2005, pag. 157).
Le lettere di Pavese sono caratterizzate da una sconvolgente concretezza di espressioni e di intenzioni: non ci sono idee allusive e indefinite, quanto una vera e propria scenografia atroce, in cui lo scrittore si attarda a descrivere i dettagli di gesti suicidari. Pavese esprime la consapevolezza di essere estraneo alla vita stessa: può forse avere un senso, ne avverte il fascino, ma se ne sente completamente tagliato fuori.
Il diario testimonia di una profonda solitudine che accompagna lo scrittore per tutta la sua vita, tracciando un cammino di disperazione con all’orizzonte il suicidio, come unica possibilità davanti a ogni situazione dolorosa della vita. La fatica di cercare un senso alla vita si scontra con la durezza del sentirsi “non contare nulla per nessuno”. La nostalgia per la vita, desiderata e sognata, ma anche mai cercata, segna le pagine della sua storia. Poco per volta è il tema della solitudine a prendere il primo posto e a questa si accompagna solamente più l’angoscia. Questa solitudine cercata è la difesa dal mondo delle persone, avvertito unicamente come luogo di indifferenza e distrazione, insignificanza e desertificazione emozionale. L’ultimo anno di vita lascia pagine di diario in cui il tema del suicidio sembra entrare in un vortice febbrile, emergono motivazioni concrete (“ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla” – citato in Borgna, 2005, pag. 165).
Le poesie di Pavese ci presentano un quadro emozionale diverso: la malinconia che nei diari e nelle lettere sembra essere solo un momento quasi sussurrato, diventa il leitmotiv delle poesie, quasi di memoria leopardiana. Questo cambiamento di stato d’animo non può far altro che ricordarci come in ognuno di noi si alternino emozioni e stati d’animo, passioni e discordanze esistenziali: la vita presenta una complessità che lascia sempre spazio ad espressioni multiple, soprattutto quando si ha a che fare con le emozioni, con l’interiorità dell’uomo. E così possiamo ritrovare, tra le righe, gli occhi della morte: sono quelli della persona amata da Pavese; nella notte e nelle stelle immagini di una morte già decisa e desiderata. Insieme i testi creano un’atmosfera emozionale diversa da quella delle lettere e dei diari.
Il suicidio di Pavese ha radici nella storia interiore della sua vita: la poesia, le lettere e i diari lasciano traccia di questo percorso doloroso che ci parla di un suicidio prima vissuto e poi attuato in un progetto di implacabile distrittuvità. I testi delle lettere e dei diario non lasciano spazio neppure per brandelli di speranza: c’è posto solo per il deserto della speranza, per la cancellazione delle speranze quotidiane. Come se l’ombra oscura della notte dell’anima non permettesse mai neppure una brave intermittenza! Possiamo accostarci con delicatezza al vissuto emozionale dello scrittore, magari con la consapevolezza che il suo suicidio ci parla di una ferita che ha radici lontane nella sua storia; rimane però un atteggiamento di sospensione del giudizio: “ogni suicidio ha in sé aree incolmabili di mistero che non possono essere risucchiate in schemi astratti e omogenei di interpretazione” (Borgna, 2005, pag. 173).
Un secondo aspetto del legame tra narrativa e psichiatria viene messo in evidenza da Argenton e Messina nel testo alle pagine 47-49: i testi narrativi possono diventare un utile ed efficace supporto per la terapia psicologica. I due autori citano gli studi più significativi che sono stati fatti negli ultimi anni, mettendo in risalto quali aspetti possono diventare un vero e proprio supporto per la terapia. In quest’ottica si possono considerare i racconti didattici che Milton H. Erickson utilizzava nel trattamento di molte problematiche psicologiche e psichiatriche.
Erickson è particolarmente noto per l’utilizzo di storie che raccontava ai suoi pazienti (ma anche a tutti coloro che venivano ad ascoltare i suoi interventi formativi), che costituiscono vere e proprie opere dell’arte di persuadere. Anche se questi racconti brevi sono inseriti nei trattati di psichiatria, avendo un obiettivo terapeutico, si possono ugualmente inserire nella tradizione letteraria americana, in particolare nella corrente dell’humor (con Mark Twain come principale esponente). L’idea di fondo della terapia, secondo Erickson, è legata alla capacità di favorire il mutamento nella persona attraverso l’incontro con un’altra persona: per rendere questo effetto maggiormente efficace il terapeuta si deve concentrare sui modelli inconsci del paziente, là dove si trovano i suoi valori e schemi di riferimento. Dal momento che l’inconscio non è necessariamente immutabile si può quindi favorire un cambiamento proprio attraverso quello che Erickson chiama “apprendimento inconscio”. I racconti didattici aiutano il paziente ad entrare in una forma di tranche, lasciando al terapeuta la possibilità di catturare la sua attenzione per dirigerla all’interno e per guidarlo alla ricerca interiore. Si deve puntare a rimettere in circolazione la parte di conoscenza che il paziente, con il tempo, ha relegato come inutilizzata: i racconti mettono in moto l’inconscio, favoriscono l’uscita di questa conoscenza accantonata, permettendo di integrarla all’interno del proprio comportamento. Sono soprattutto i messaggi positivi che permettono di creare modifiche dell’inconscio. Il primo effetto di questi racconti didattici è la creazione di una relazione molto forte tra paziente e terapeuta: in questo modo il primo si sente capito, più sicuro e fiducioso, in modo da potersi avventurare nel proprio mondo interno e in quello esterno con maggiore disponibilità a correre rischi. Si tratta di strumenti che non vanno staccati dal complesso della terapia ericksoniana: sono efficaci se emergono dall’osservazione degli schemi interessanti nelle reazioni e nei sintomi che il paziente esprime. Si tratta quindi di operare in modo progressivo: “dapprima strutturi il mondo del paziente. Successivamente ristrutturi il mondo del paziente” (Erickson, 1983, pag. 26).
L’effetto di ristrutturazione che la terapia ericksoniana propone non è legata solo al racconto didattico, ma allo stile della narrazione: l’atteggiamento spigliato e umoristico con cui il terapeuta si rivolge al paziente mentre riformula il problema. A questo punto il paziente è pronto a esplorare il suo potenziale interiore e “a trovare modi diversi di guardare a una situazione” (Erickson, 1983, pag. 29).
Il procedimento terapeutico proposto da Erickson può accostarsi alla funzione catartica della letteratura, anche se in questo caso si tratta di brevi racconti costruiti ad hoc. L’idea di catarsi non si riferisce quindi ad una sorte di purificazione morale, quanto ad un processo di chiarificazione, di liberazione da ostacoli: “la letteratura può contribuire a farci vedere e comprendere con maggiore chiarezza l’esistenza umana” (Argenton e Messina, 2000, pag. 208).
Attraverso l’analisi della letteratura di Pavese e dei racconti didattici di Milton Erickson, abbiamo fatto un breve viaggio che ci ha portati a cogliere i legami tra psichiatria, trattamento terapeutico e forma narrativa. Ciò che accomuna i temi affrontati è la profondità dell’esperienza umana: un testo narrativo, nelle sue diverse modalità espressive, si fa voce dell’umanità, dell’autore e del lettore, di chi vuole esprimere un proprio stato emotivo e di chi vuole tentare una strada per modificare quello di altri. La narrazione diventa uno spazio di incontro, in particolare nel luogo della sofferenza intrapsichica. In questo incontro risuona l’invito di Borgna:
scendiamo ogni volta nelle aree sconfinate della nostra interiorià, della nostra soggettività, e analizziamo le nostre emozioni: la sincerità e la profondità delle nostre emozioni (delle nostre passioni). Solo così, ed è la fatica di ogni giorno, ci è poi possibile conoscere l’altro nella sua stanchezza e nella sua precarietà, nel suo tedium vitae e nella sua gioia (così friabile), ed essergli di un qualche aiuto (Borgna, 2005, pag. 206).
BIBLIOGRAFIA
ARGENTON A. e MESSINA L., 2000, L’enigma poetico. L’indagine sperimentale in psicologia della letteratura, Bollati Boringhieri Editori, Torino.
BORGNA EUGENIO, 2005, L’attesa e la speranza, Feltrinelli Editore, Milano
ERICKSON MILTON H., 1983, La mia voce ti accompagnerà. I racconti didattici di Milton H. Erickson, Editrice Astrolabio, Roma |
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ISAisaOH Apprendista

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 Sesso:  Età: 36 Registrato: 24/09/08 19:11 Messaggi: 36
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ciao giampiero!ti ho inviato sulla tua mail una mia correzione-analisi del primo paragrafo, perchè qui sul forum non mi rimanevano le mie correzioni sottolineate...boh...cmq spero ti sia utile!
ciao  |
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Serena Apprendista

Moderatori
 Sesso:  Età: 38 Registrato: 23/09/08 22:18 Messaggi: 75
Località: Torino
Impiego: studentessa
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Ah Eugenio, io ho importato il tuo file senza guardare troppo cosa ci fosse,
non mi ero accorta che c'era la tua e-mail!!!
ti va bene che la lascio o non vuoi??
ciao
sere |
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333457 Nuovo

Iscritti
 Sesso:  Età: 54 Registrato: 11/10/08 17:33 Messaggi: 2
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va bene per la mail... .anzi così magari arrivano anche più suggerimenti... ho visto la tua mail... grazie per l'aiuto
buona nuova settimana Serena
Gianpi |
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